Psichiatria: percorsi italiani

Psichiatria: percorsi italiani

Marcello Neri

«Un libro è comunicazione del pensiero a cui abbiamo lavorato insieme che vuole essere istanza di crescita collettiva» – con queste parole Elisa Pellacani, direttrice della Casa Editrice Consulta, ha aperto la prima Giornata di studio dell’Istituto Superiore di Scienze dell’Educazione e della Formazione “Giuseppe Toniolo” di Modena.

In piena sintonia con il progetto che l’Istituto Toniolo vuole portare avanti organizzando, ogni semestre, una giornata di studio per il proprio corpo docente e per i suoi studenti: pensare e riflettere insieme, per mettere alla prova di un effettivo impatto sul collettivo sociale le pratiche che contraddistinguono il Toniolo rispetto alla comune impostazione universitaria delle Scienze dell’Educazione.

Con la Casa editrice Consulta si è generato un immediato sentire comune sia sulla dimensione umanistica delle pratiche di cura educativa, sia per l’attenzione estetica alla circolazione dei contenuti del pensiero e dell’esperienza professionale.

Inserita nel percorso “Màt – Settimana della salute mentale” della città di Modena, questa prima Giornata di Studio ha messo a tema quelli che sono stati i percorsi italiani della storia della psichiatria – con attenzione particolare al bacino emiliano e alle sue peculiarità.

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L’inquadramento complessivo è stato offerto dal prof. Ciro Ruggerini, che ha individuato i punti di svolta della dimensione sociale implicita nell’esercizio della professione psichiatrica (questo nel bene e nel male).

Si deve partire da molto lontano per cogliere la dimensione potremmo dire biologica di una società della cura. Resti ossei di un uomo, vissuto 12.000 anni fa, divenuto disabile a causa di un fatto traumatico hanno permesso di rilevare come esso sia rimasto a pieno titolo membro della sua comunità: non solo da essa accudito, ma a cui egli stesso contribuiva – certo in maniera diversa da prima – attivamente con pratiche di cura.

Se, come affermato da Ruggerini, nella biologia umana sembra essere iscritta questa propensione empatica, si è data d’altro canto una organizzazione sociale che ha saputo darle forma collettiva – ossia, l’ha realizzata culturalmente mediante pratiche condivise e reciprocamente riconosciute.

L’episodio è importante perché mette in risalto come ogni condizione di disabilità, inclusi quelli che oggi chiamiamo disturbi mentali, sono un costrutto socio-culturale – rispondono cioè a delle «richieste della società, ispirate dagli orientamenti culturali e politici del tempo: esse sono, quindi, fatti di cultura e non di natura» (Ruggerini). E un fatto di cultura è non solo l’ambito di applicazione del sapere psichiatrico, ma anche la collocazione delle sue pratiche all’interno delle società.

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Questo spiega i «cambiamenti, anche radicali, che sono avvenuti negli ultimi decenni nella assistenza psichiatrica e nella cura di persone che dipendono da un sostegno per il loro sviluppo». Le parole usate nel tempo per nominare la persona affetta da disturbi mentali contano, perché non solo la dicono ma, anche e soprattutto, la collocano nel contesto sociale – magari per separarla da esso.

Così è del termine «idiota», usato anche nel lessico medico dell’Ottocento: la sua radice greca vuol dire «isolata»; e la sua declinazione medica intende «l’incapacità della persona di andare oltre la percezione del mondo fisico per raggiungere una rappresentazione mentale degli oggetti».

La storia dell’istituzione manicomiale, come l’ha presentata il prof. Piero Benassi attraverso un coinvolgente racconto biografico, è una storia fortemente marcata dall’isolamento e dalla separazione (non solo dal corpo sociale, ma anche dalla strutturazione architettonica dell’apparato ospedaliero).

Per lungo tempo la psichiatria è vissuta dell’isolamento, perché «esso era già ritenuto la cura» (prof. Stefano Mazzacurati). E la separazione ospedaliera dei reparti di psichiatria (i manicomi) ha prodotto non solo l’isolamento della persona affetta da disturbi mentali, ma anche dei medici che di essa si prendevano cura.

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È a metà dell’Ottocento, in Francia, che si può registrare il seme di una svolta che attecchirà però solo dopo la fine del XX secolo – che vede come protagonista Édouard Séguin per il quale «la persona “idiota” può essere educata con l’obiettivo di divenire un cittadino parte attiva della propria comunità» (Ruggerini). Una sorta di ritorno a quello di cui era capace una comunità umana di 12.000 anni fa, come se millenni di civilizzazione occidentale avessero alla fin fine contribuito alla demarcazione di un «noi-loro», modulata in mille rivoli diversi, che serve a giustificare e legittimare pubblicamente la civiltà della soppressione dell’«altro». Pulire la società dall’idiota, confinandolo in quell’istituzione totale che sono stati i manicomi, è il preludio al genocidio nazista dei disabili – che avverrà di lì a poco.

Ma bisogna stare attenti a non imputare in toto la mentalità eugenetica all’ideologia nazional-socialista, perché quest’ultima fece proprio un pensiero diffuso a livello medico e scientifico nella prima metà del Novecento. È dagli Stati Uniti che, nel 1935, arriva la parola autorevole del medico e premio Nobel francese Alexis Carrel per il quale «criminali e malati di mente devono essere umanamente ed economicamente eliminati in piccoli istituti per l’eutanasia forniti di gas adatti allo scopo».

Nel percorrere la storia dell’Ospedale San Lazzaro di Reggio Emilia, il prof. Benassi ha ricordato la sua compromissione con il fascismo che, attraverso il Codice Rocco del 1930, aveva fatto del malato di mente un vero e proprio criminale. La criminalizzazione del malato mentale proseguì in Italia ben oltre il regime fascista (infatti, è solo con la legge 431 del 1968 che veniva abolita la sua iscrizione nel Casellario giudiziale), con tutte le sue conseguenze di «complicazione legislativa sul trattamento dei malati, su quando si potevano o dovevano legare, sui limiti della libertà personale e sulle regole burocratiche, stabilendo una serie di principi comportamentali per cui la struttura manicomiale era forzatamente rigida» (Benassi).

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Ed è proprio nella esperienza di resistenza al totalitarismo del regime fascista che, in Italia, germina un percorso di psichiatria che mira alla trasformazione dell’istituzione totale dei manicomi in ospedali. Infatti, come Benassi, anche Franco Basaglia negli anni del fascismo vi si oppose resistendo alla chiamata alle armi e, in quanto disertore, fu incarcerato per qualche tempo.

Oggi, la psichiatria del nostro paese vive della sua eredità e dei «debiti che essa ha lasciato alla generazione seguente di psichiatri» (Mazzacurati). Debiti legati al modo in cui fu scritta la Legge 180 nel 1978, il cui estensore materiale fu il democristiano Bruno Orsini, ai tempi con cui e in cui fu scritta e approvata, e alla sua solo parziale applicazione effettiva negli anni successivi.

Debiti legati però in parte all’esperienza professionale di Basaglia stesso, in quanto le dimensioni e il numero di pazienti degli ospedali di Gorizia e Trieste in cui egli operò in maniera sicuramente innovativa e umanistica non erano quelli di città e realtà ospedaliere più grandi e complesse.

La Legge 180 «fu scritta in fretta e approvata in maniera altrettanto frettolosa per evitare i referendum» voluti dall’area riformista del Parlamento italiano – che, erano gli anni del terrorismo ricordiamo, i due partiti «massimalisti, DC e PCI, sentivano essere pericolosi per un paese già in crisi di stabilità» (Mazzacurati). In una realtà come l’Ospedale San Lazzaro, con migliaia di degenti cronici, questa legge non dava il supporto necessario nel rendere effettivi i percorsi della loro dimissione.

Qui sta il pionierismo socio-politico del prof. Benassi, che allora ne era il direttore, nel creare pratiche innestate sul territorio che permettessero una formazione professionale dei degenti cronici grazie alle quali la dimissione dai reparti di psichiatria non coincidesse con il loro abbandono a sé stessi.

Ma percorsi di questo genere non erano possibili a tutti i degenti allora ricoverati al San Lazzaro, chiedendo che si mettesse mano a provvedimenti di tipo previdenziale e pensionistico per permettere loro quantomeno un sostentamento economico al di fuori dei reparti di degenza.

Reparti che, dopo la Legge 180, hanno conosciuto una «cronica mancanza di posti letto» (Mazzacurati) necessari per far fronte alle urgenze presenti sul territorio. In questa prospettiva, l’ambito della psichiatria ha sofferto in maniera estrema le politiche di privatizzazione che hanno, passo dopo passo, smantellato la sanità pubblica in Italia – lasciando letteralmente all’inventiva di medici e infermieri il modo di gestire momenti di crisi delle persone affette da disturbi mentali.

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Delle eredità, anche di quelle buone e illuminate, non bisogna dunque farne un mito; perché, così facendo, si finisce per legittimare uno status quo ancora largamente insufficiente a sostenere pratiche di cura, medica ed educativa, che siano degne di una cittadinanza senza distinzioni di gradi – capace di portarsi effettivamente ogni separazione in noi e loro, come è il principio di cittadinanza iscritto nella Costituzione italiana.

Questo comporta anche una riformulazione del rapporto fra lo psichiatra e la persona che ricorre alle sue competenze professionali, uscendo anche dagli stereotipi stigmatizzanti di cui è pieno il lessico della cura stessa: dal paziente all’utente.

Secondo Mazzacurati, infatti, «non esistono malattie ma malati; e prima ancora che malati persone. Non si ha una depressione, ma si e depressi. Il mondo della cura contiene il mondo tecnico della terapia; ma questa è essenzialmente un modo del prendersi cura dell’altro come persona».

Visione, questa, che cambia anche l’asse dei rapporti e del sapere nella relazione di cura psichiatrica: «è la persona chiamata abitualmente paziente che sa, che ha il compito di raccontarsi. I terapeuti non sono i ghostwriters della persona; piuttosto, è quest’ultima che deve de-scriversi, così che il paziente è l’autore della narrazione e il terapeuta semplicemente il suo editore» (Mazzacurati).

Se la terapia è un evento narrativo, di una «scrittura» che viene affidata/raccolta a e da un altro, la sua prossimità con il mondo della letteratura risalta immediatamente – come ha felicemente e magistralmente intuito Eugenio Borgna; approssimando così le pratiche della cura all’esperienza estetica dell’arte. Non solo le scuole di psichiatria, ma anche le facoltà di scienze dell’educazione, sono ancora troppo distanti, secondo Mazzacurati, da questa necessaria sensibilità letteraria come momento di apprendimento che è imprescindibile anche per la tecnica terapeutica.

Come manca un confronto ad ampio raggio della psichiatria accademica con il pensiero fenomenologico di matrice tedesca e francese – confronto che non solo le darebbe respiro più ampio, ma le permetterebbe anche di riconfigurare il quadro antropologico e socio-culturale di fondo del momento, pur sempre necessario, della terapia tecnico-professionale.

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Se la prima Giornata di Studio dell’Istituto G. Toniolo di Modena può dirsi sicuramente riuscita come evento, rimane ancora tutto da fare per darle la forma del processo – ossia di una dinamica trasformativa delle pratiche accademiche interne affinché queste siano generatrici di un pensiero e di prassi in grado di avere ricadute concrete sul collettivo e sulla società.

La forma evento è politicamente corretta, soddisfa e non disturba nessuno – ed è quindi sostanzialmente a-politica. Il processo, invece, chiama in causa, irrita, scompiglia assetti interni ed esterni – fa politica facendo cose. Credo che sia questa la misura intorno a cui mettere alla prova senso e destinazione di un’istituzione accademica che rivendica una originalità nella quale però e bene non crogiolarsi.


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